La società non era un nido, ma un muro.
Non lo aveva mia rivelato a nessuno; non ce ne era bisogno perché gli altri già sapevano, altrimenti non ci sarebbero stati tanti libri, film e poesie sull'argomento
e lui non era così arrogante da andarsene in giro a lanciare giudizi non richiesti; non così tanto.
Per non parlare della musica. Il rifugio ultimo dell'uomo stanco del mondo, subito dopo i libri.
Cosmo la stava ascoltando in quel momento la musica, come sempre quando usciva di casa; qualcosa che nessuno avrebbe potuto indovinare ascoltasse il giovanotto più ordinato del mondo, e anche il più serio.
Cosmo non si chiamava davvero Cosmo, il soprannome glielo avevano dato per i suoi studi di astronomo, pensava lui; ma era più probabile che lo avessero nominato così perché sembrava sempre distante da tutto, come le stelle.
Amava farsi chiamare Cosmo, e cercava da tutta la vita di non essere gli altri, di non essere la gente; di essere più simile alle sue stelle.
Le sue nobili stelle.
Con aria cupa stava esaminando i libri sugli scaffali, volumi vecchi e rovinati, edizioni economiche per lo più, ma bei titoli.
Ne prese in mano uno la cui copertina era tanto consunta da non leggersi quasi più e prese a sfogliarlo, assaporando la carta vecchia sotto le dita e l'odore di colla che ne sprigionò. Ma quando ne lesse i versi: “L'inferno sono gli altri” fece una smorfia.
Si sentì giudicato e lo rimise giù con stizza. Non era la prima volta che quel posto dimenticato da tutti lo prendesse in giro; per questo ci andava tanto spesso.
Era un posto vivo.
Ma ogni tanto era derisorio e questo non gli piaceva perché Cosmo era abbastanza vecchio da saper rimettersi in discussione ma troppo giovane perché lo facesse volentieri.
Scivolò fuori dalla sezione poesia e si inoltrò nella saggistica, poi navigò verso la narrativa, incapace di scegliere, aggirandosi fra gli scaffali di alluminio con lunghi lenti passi, portandosi dietro uno sguardo timido che gli faceva silenziosa compagnia. Ignorando quel paio di occhi che lo seguivano ovunque continuò la propria ricerca e quando andò a sbattere con la cosca contro qualcosa di duro sussultò.
Guardò in basso.
“Una scacchiera?” disse a bassa voce, aggrottando la fronte. Il tavolino di fornica che aveva colpito se ne stava contro una parete e non era circondato da due sedie, come avrebbe dovuto essere visto quello che ospitava, ma da una sola.
Un foglietto scritto da mano gentile ricordava ai giocatori che:“Muove il bianco”
Sollevò lo sguardo. Il paio di occhi castani che lo fissavano da quando era entrato si spalancarono come quelli di una bambina; l'osservatrice tornò a nascondersi dietro gli scaffali e a rimettere concitatamente al loro posto i libri che le erano stati restituiti.
Riabbassò gli occhi sulla scacchiera.
Una partita sospesa, pensò.
Una mezza dozzina di pezzi erano caduti con l'urto; con mano precisa li rimise al loro posto.
La partita non era stata cominciata, non aveva rovinato il gioco a nessuno.
Si guardò attorno, a parte lui e la donna dagli occhi castani non c'era nessuno in quella mattina di metà settembre. Il sacro silenzio era interrotto solo dal ronzare delle lampade al neon e dai loro passi sulla moquette grigia; nessuno studente chino sui libri di testo, bambini con le mamme a frugare fra gli albi illustrati o vecchietti alla ricerca di cose noiose come loro.
Solo lui, lei, e la scacchiera.
Cosmo ci pensò su un attimo, mosse un pezzo, un pezzo bianco ovviamente.
Dopo aver fatto la sua prima mossa si sentì abbastanza soddisfatto da abbandonare la ricerca di un libro per il weekend che, evidentemente, non aveva intenzione di farsi trovare e si diresse verso l'uscita. Non si dimenticò di fare un cenno di saluto alla bibliotecaria che ricambiò con un sorriso timido. Non si erano mai parlati, Cosmo pensava non sarebbe successo mai e andava bene così perché lui era davvero un pessimo spasimante e quella ragazza piccola e magra dai grandi occhi castani e i ricci ramati che le ricadevano sulla fronte non si meritava di avere accanto uno come lui. Un cinico che pensava che gli altri fossero solo un fastidio.
Ma la biblioteca di quartiere era il suo posto, era casa sua, e il venerdì dopo Cosmo vi tornò alla ricerca di un altro libro.
Sapeva bene cosa e dove cercarlo, l'autunno si stava facendo pungente e l'autunno era la stagione dei triller e dei gialli, come la primavera quello della poesia, l'estate dei romanzi di avventura, l'inverno degli horror. Passò davanti il bancone della bibliotecaria facendole il solito cenno di saluto e andò dritto nella sezione che gli serviva; trovò il libro, prese il libro, tornò al bancone.
Lei gli sorrise dolcemente, prese la sua tessera, la scansionò e gli restituì il suo libro; Cosmo si girò per andarsene quando una voce che sembrava un sospiro esclamò: “Hanno mosso!”
Si girò e guardò la ragazza che dopo aver parlato era arrossita e ora teneva le labbra serrate.
“Scusa?” chiese Cosmo, guardandola da sopra gli occhiali; non aveva mai sentito la sua voce.
Era una bella voce.
La bibliotecaria dalla bella voce che non usava quasi mai indicò alla sua sinistra e ripeté: “La partita sospesa, qualcuno ha p-preso a giocare con te.” poi si zittì di nuovo e riabbassò gli occhi sul proprio lavoro.
“Oh” esclamò Cosmo e aggiunse: “Me ne ero scordato. Grazie” le rispose, dirigendosi verso la scacchiera.
Era vero: qualcuno aveva mosso, ed era stata una buona mossa.
Inconsapevolmente Cosmo sorrise; rifletté e la sua regina bianca fece un passo avanti.
“Ora vediamo se sei intelligente o solo fortunato.”
Alla stessa ora del venerdì mattina oltrepassò la soglia della biblioteca scrollandosi il cappotto e lasciando l'ombrello zuppo nel portaombrelli all'ingresso.
Tirò fuori il libro al sicuro dentro il cappotto e lo mise sul bancone.
Lei, la bibliotecaria dalla bella voce che non usava quasi mai, guardò il grosso libro incredula: “Ci hai messo un attimo a finirlo.” Ma Cosmo dissimulò: “Non è merito mio, è un libro che scorre come l'acqua. Ed è meglio del film, cosa che non credevo possibile in tutta onestà.”
“Trovo che quasi tutti i King lo facciano. Di farsi divorare in un lampo intendo, e di essere migliori dei film. Anche se tutti i film tratti da quello che scrive hanno qualcosa di speciale, anche quelli brutti, forse soprattutto quelli.”
“Sono d’accordo.”
Silenzio.
Se Cosmo avesse aggiunto qualcosa, qualunque altra cosa, come: “Sai è stupido, ma da piccolo avevo questo vecchio DVD, non so se ne hai mai sentito parlare... si chiamava Creepshow. Era una sua antologia di racconti...” ammettendolo abbassando la testa e sorridendo come un ragazzino che ammette una marachella, in quel modo l'avrebbe fatta innamorare di lui definitivamente. Sarebbe bastato anche una domanda: “Preferisci i romanzi o i racconti?” oppure: “Ti piacciono solo i suoi horror o sei fra quelli che amano come scrive il fantastico?” la conversazione sarebbe proseguita amabilmente, lei avrebbe finito per offrirgli un caffè dalla macchinetta, lui le avrebbe chiesto perché dovessero accontentarsi della macchinetta quando c'era una bella caffetteria dall'altra parte della strada e... invece era stata stroncata sul nascere, ma non per volontà di Cosmo; lui sbirciava insistentemente verso la scacchiera così lei gli disse: “Ha mosso.”
“Ho! Bene! A dopo.” e dicendolo si diresse a grandi passi verso il tavolino di fornica.
Non era solo fortunato, era intelligente invece e sapeva giocare.
Cosmo si sedette alla piccola seggiola, il mento fra le mani e i gomiti sulle ginocchia.
Dopo qualche minuto si ritenne soddisfatto, mosse e si alzò; prese un altro libro dalla sezione gialli, un Camilleri questa volta, e tornò alla sua vita di tutti i giorni.
Il venerdì dopo la bibliotecaria dalla bella voce si era assentata dal bancone per mettere in ordine alcuni volumi regalati alla sezione saggistica. Ma aveva fretta, era quasi l'ora. Guardò il piccolo orologio che portava al polso e affrettò il passo per tornare al bancone, mancavano pochi minuti all'ora del suo ingresso, era venerdì mattina. Ma quando arrivò al proprio bancone vi trovò il Camilleri posato sopra, solitario.
Se ne era già andato? E non aveva preso un altro libro in prestito? Non era da lui ma forse... si portasse a sbirciare oltre l'angolo di cartongesso che separava il suo microscopico ufficio dal resto della biblioteca e lo vide li, chino sulla scacchiera, seduto alla seggiolina troppo bassa per lui tutto concentrato sulla sua partita a scacchi.
Silenziosa come il topolino di biblioteca che era scivolò al suo posto e si mise in quieta attesa. Quando Cosmo comparve le fece un piccolo sorriso e chiese: “Scusami, volevo chiederti: sai con chi sto giocando?”
“No, non l'ho mai notato, mi dispiace. È bravo?”
“Molto bravo, me la sta facendo sudare questa partita.”
“Ne sono contenta, sembri... uno a cui piacciono molto le sfide.”
“Oh sì, anche troppo. Prendo questo” e dicendolo Cosmo le porse il libricino che lei notò erano sempre più piccoli e sottili, non brutti anzi, ma brevi.
Aveva fretta di tornare in biblioteca; bene.
“Simenon? Bellissimo.” commentò a bassa voce, ma lui non la stava ascoltando, guardava la scacchiera come incantato.
Lei ne sorrise di nascosto e si mise in sua attesa la settimana dopo.
Quando il venerdì mattina dopo Cosmo si sedette a quello che era ormai “il suo tavolino” suo e del suo amico invisibile, ci trovò un bigliettino.
“Gli scacchi sono il gioco più nobile del mondo perché ci dimostrano che anche un singolo, modesto pedone può portare alla rovina un intero regno.”
Cosmo lesse il biglietto; era la stessa calligrafia di quell'invito iniziale: “Muove il bianco.”
Rimase lì, immobile, serio, a fissare il biglietto; sentendosi come tutti i venerdì osservato.
“Il gioco più nobile del mondo” mormorò.
Dopo un tempo di riflessione interminabile prese la penna dal taschino, girò il foglietto e scrisse la sua risposta, dopo dieci minuti mosse, si alzò e, senza salutare, prese il libro della settimana e se ne andò.
Sul biglietto, nella sua bella scrittura corsiva, campeggiava l'amara risposta: “Gli scacchi sono il gioco più nobile del mondo perché un pedone è solo senza il fastidio degli altri.”
Il problema erano gli altri.
Erano sempre stati gli altri.
Se non ci fossero stati gli altri in molti avrebbero potuto realizzare i propri desideri, realizzare le proprie vite, anche solo trovato di che vivere.
A Cosmo non piaceva molto pensarla così, ma era arrivato a questa conclusione anni prima e nulla lo aveva ancora dissuaso da questa dolorosa idea. Gli altri, la gente, erano un fastidio; non veniva insegnato da piccoli che tutte le cose belle e grandi che vedevamo e che avremmo voluto raggiungere non ci sarebbero state negate di fatto dall'universo, dal mondo o da un Dio malevolo, ma dagli altri; solo e soltanto dagli altri. Per questo leggeva così tanto, per restare da solo.
Voleva che lei lo capisse, come la pensava, perché non era così modesto da non vedere come lo guardava ne abbastanza gentile da cambiare biblioteca.
Lei lo doveva sapere che era uno stronzo.
Era una ragazza dolce, romantica e intelligente; se non fosse stata dolce non avrebbe cominciato di nascosto quella partita con lui, se non fosse stata romantica non avrebbe preso a comunicare con lui con una cosa discreta come un biglietto, se non fosse stata intelligente non avrebbe giocato a scacchi tanto bene.
Forse credeva fosse timido, probabilmente credeva fosse misterioso e gentile.
Ma Cosmo non era gentile e non voleva illudere la ragazza dalla bellissima voce che non usava quasi mai. Lei si meritava di meglio.
Ma quando tornò la settimana dopo c'era un altro biglietto.
Non c'era lei, ma c'era il suo biglietto poggiato sulla scacchiera, e il nero aveva mosso.
“Gli altri sono un muro, lo sai; bisogna scalarli.”
La sua regina era stata mangiata; il re era solo sotto lo sguardo derisorio della regina nera.
Cosmo imprecò, sbalordito.
“Come cazzo...” si sedette a guardare quel mirabolante risultato con le mani abbandonate fra le ginocchia, le spalle curve e la schiena abbandonata al piccolo schienale duro della sedia.
Studiò e ristudiò e solo dopo molto ragionare riuscì a trovare una fragile via di fuga.
La torre; poteva puntare tutto alla torre nera.
Lei aveva scalato il suo muro di pedoni senza alcuno sforzo e lo aveva messo totalmente a nudo, esposto come un bambino lasciato solo su una spiaggia burrascosa.
Sentì freddo dentro, poi una vampata che era di vergogna e anche di eccitazzione.
Non aveva mai incontrato qualcuno così.
Con la faccia rossa si alzò e, distrattamente, andò alla ricerca di un libro, il suo silenzioso e mite compagno del weekend; senza vederli davvero passò la punta delle dita sulle coste rovinate, sotto il ronzio delle lampade al neon, ne scelse uno e a passi lenti e meditabondi, uscì dalla biblioteca.
Tornò che la biblioteca era nella sua ora d'oro, quel pomeriggio stesso, e lo fece di corsa.
Cosmo non era mai stato in biblioteca il pomeriggio e ora vedeva che il suo regno silenzioso e solitario diveniva un posto completamente diverso.
C'erano i bambini, c'erano le madri, c'erano i vecchietti e gli studenti, e c'era lei, che faceva il suo lavoro sorridendo dolcemente a tutti, carezzando la testolina dei piccoli lettori, consigliando le mamme, tenendo compagnia ai vecchietti e informando gli studenti che ci sarebbe stata quella e quell'altra presentazione a cui tenevano tanto a breve.
Quell'essere dolce e aggraziato che era un genio scacchistico.
Cosmo la guardava ammirato, senza essere notato, con il libro preso la mattina stessa stretto spasmodicamente in mano; il biglietto che ci aveva trovato dentro ancora stretto fra le pagine.
Era sudato, aveva corso per tornare li.
Per tornare da lei.
Dopo essere passato in biblioteca era andato in università e, dopo le lezioni, era tornato a casa e si era potuto sedere in poltrona e aprire il libro che aveva preso quella mattina.
E dentro ci aveva trovato un bigliettino.
“Per aspera ad astra et per astra ad sper; Cosmo.”
Quella calligrafia, il motto latino, una connessione, il proseguimento di una conversazione.
“Gli altri sono un muro Cosmo, lo sai; bisogna scalarli. Per aspera ad astra ed per astra ad sper.”
Quella donna dalla bella voce che non usava quasi mai era un genio scacchistico e una maga; non poteva sapere il suo soprannome, non poteva consocere il suo motto preferito, ma sopratutto non poteva sapere in nessun modo di un libro che non sapeva avrebbe preso e portato a casa nemmeno lui fino a che non lo aveva visto sullo scaffale!
La guardava; la vedeva, trattenendo a stento il fiatone, gli occhiali appannati dall'umidità, il cappotto imperlato di pioggia, le mani, fredde, che tremavano.
Aspettò a lungo, perché lui credeva di non essere una persona gentile ma lo era invece, era gentile di natura e sopratutto era educato; aspettò fin quando quasi tutti se ne furono tornati a casa.
Gli altri che non erano la gente.
Alla fine restarono soli, lui e lei.
Il lettore e la bibliotecaria.
E in un angolo, la scacchiera.
“Buonasera Vittorio.” esclamò Rebecca stupita quando lo vide, sorridendogli in un modo speciale che avrebbe fatto sciogliere qualsiasi cuore maschile; anche quello di Cosmo si sciolse e lo fece arrossire.
“C-ciao.”
Sapeva il suo nome. Era normale che sapesse il suo vero nome; era scritto sulla tessera della biblioteca, il mistero era come facesse a conoscere il suo soprannome, o il suo motto latino preferito.
O quale libro avrebbe preso in prestito.
“Come mai sei tornato così presto?” gli chiese; e allora Vittorio, detto Cosmo, si rese conto che tutto quello che voleva chiedergli avrebbe solo rovinato tutto, aprì la bocca e ne uscì solo: “Per te, sono tornato per te. Vorresti venire a prendere un caffè, con me?”
La pioggia tamburellava sull'ombrello di lei con cui lo proteggeva, facendo un po' fatica dato che lui era tanto più alto, ma Cosmo prese l'ombrello dalle dita delicate, quelle passarono attorno al suo braccio e, insieme, attraversarono la strada.
Lei profumava di caprifoglio e sorrideva.
Si chiamava Rebecca; un nome bellissimo che suonava antico.
Ordinarono il caffè, e poi un altro, e un' altro ancora.
E parlarono, parlarono, parlarono. Si dissero tutte le cose che non si erano ancora detti, parlarono di tutti i libri che lui le aveva messo in mano per restituirli il venerdì mattina puntuale come un orologio. Cosmo scoprì che a Becca piacevano i puntuali, anche perché lei non riusciva ad esserlo, le piacevano le persone, trovava fossero un tesoro prezioso, odiava gli eventi; pensava che il mondo moderno fosse ripieno di eventi, di esperienze instagrammabili in cui la gente mangiava, beveva, ballava ma in cui rimanevano tutti soli.
“Alla biblioteca cerco sempre di organizzare eventi fatti di persone e non di cose, se capisci cosa intendo. Una volta ci vantavamo di quello che possedevamo ed era già abbastanza brutto, ma da quando abbiamo preso a instagrammare il biglietto del concerto in cui siamo andati o l'ennesimo ristorante in cui abbiamo mangiato non mi sono mai sembrati tutti così poveri. Io lo so che le persone possono essere faticose, ma siamo mondi, capisci Cosmo? Mondi, universi, molto, ma molto più interessanti di qualche stupido evento a cui andiamo per riempirci la serata e di cui restano solo post e cose così. Ma sto parlando solo io...”
“N-no scusa, scusa; è che mi piace il suono della tua voce. Tutto qui.”
Becca arrossì, e sorrise. “Grazie, anche a me piace il suono della tua.”
“Per questo hai messo la scacchiera? Per far... interagire fra loro le persone?”
Rebecca si illuminò tutta come una bambina. “Sì! C'è tantissima gente insospettabile che ama giocare a scacchi sai? È un incontro di cervelli prima che di caratteri o di gusti, o di opinioni. Se giochi con qualcuno bravo almeno quanto te finisci per rispettarlo, e se rispetti il suo cervello non puoi non rispettare le sue opinioni. È difficile, ma è qualcosa che resta.”
“Per aspera ad astra et per astra ad sper.”
“Oh aspetta! So un po' di latino!”
Cosmo la guardò stupito mentre lei traduceva: “Attraverso le avversità verso... le stelle e... oltre le stelle verso la speranza? È giusto?”
“Non lo conoscevi?” chiede lui, lei scuote i ricci, sembra vergognarsi. “Tutti si aspettano che io abbia studiato lettere per finire a lavorare in una biblioteca, ma in realtà io non ho fatto studi umanistici. Lavoro in biblioteca perché non ho trovato concorsi per fisica teorica, ma ho sempre adorato leggere e così eccomi qui.”
Cosmo la guardò fisso qualche secondo fino a farla sentire in imbarazzo, in imbarazzo e inadatta.
“M-mi dispiace” mormorò Becca. Lo aveva deluso; sentiva la sua delusione su di se, ora si sarebbe alzata, avrebbe pagato e con una scusa sarebbe scappata via. Aveva rovinato tutto quanto! Mesi e mesi a sperare, a cercare il coraggio, a combattere contro la sua immensa timidezza e poi, quando era stato lui a fare il primo passo facendole rimbalzare il cuore in gola lei aveva rovinato tutto ammettendo che non era la creatura colta che sembrava.
Ma a Cosmo non importava quello, senza rendersene conto Becca gli aveva dimostrato una cultura in lettere che non era certo da invidiare a uno studente appassionato e scoprire che era una scienziata come lui gli aveva fatto fischiare le orecchie e correre forte il cuore.
A lui interessava sapere se Rebecca giocasse a scacchi.
Lei, con gli occhi umidi, fu costretta ad ammettere: “No, purtroppo no. Ho sempre voluto imparare ma non so nulla di scacchi io.” e poi aggiunse abbassando vergognosa la testolina: “M-mi spiace.”
“Ma... quindi non eri tu a giocare con me?!” la sua voce era sdegnata, quasi offesa.
Lei fu presa da terror panico e si alzò di scatto, stringendo i manici della borsetta. “DEVO ANDARE, S-CUSA!” balbettò prima che la mano di Cosmo scattasse ad afferrarla per un polso.
“No no no; no Becca non andare via! Scusa sono un vero stronzo, non volevo farti fuggire, t- ti prego torna a sederti, con... con me. Perdonami.”
Lei tornò a sedersi e lui le raccontò tutto.
Degli scacchi, dei biglietti; tutto.
Quando il barista prese a spazzare per terra nemmeno se ne accorsero ma, con suo grande sollievo, la giovane coppia si alzò senza che lui dovesse pungolarli, il ragazzo pagò senza nemmeno guardarlo, intento com'era nella conversazione con la ragazza con cui aveva consumato la bellezza di sette caffè e un cappuccino, ed uscirono stretti l'una al braccio dell'altro. Il barista sospirò, sollevato ma anche contento, era bello vedere coppiette così, sapeva che li avrebbe rivisti presto.
“Ti devo far vedere una cosa” gli aveva detto lei, alzandosi.
Tornando in biblioteca che era buio, tutto era stato chiuso, ma Becca aveva un passaggio segreto tutto suo.
“Vieni!” gli disse lei, prendendolo per mano. Avevano passato un piccolo cancello che sembrava chiuso ma era invece solo accostato, salite delle scale esterne ed erano entrati in un magazzino e, fra il buio, gli scaffali e gli scatoloni di libri, erano ritornati in biblioteca che, da buia, sembrava un posto ancora più grande e misterioso.
Lei lo portò in un ufficio dove c'era un pc e alcuni piccoli monitor, inserì la password e gli mostrò, a velocità aumentata, quello che le telecamere di sicurezza avevano ripreso di ciò che succedeva alla scacchiera dopo che lui aveva mosso e se nera andato.
Nulla.
Nessuno si era seduto se non lui, nessuno aveva mosso i pezzi; in molti si erano fermati a osservare la partita e a commentare fra di loro ma i frequentatori della biblioteca non erano “la gente” e nemmeno “gli altri”, erano persone e in quanto tali non si sarebbero mai intromessi nella partita a scacchi di qualcun altro e nessuno aveva toccato i pezzi, o scritto biglietti.
Rebecca spense il monitor e lo guardò. “Se te lo avessi detto e basta non ci avresti mai creduto.”
“No, infatti.” Cosmo ci pensò su e poi disse che doveva essere per forza qualcuno che aveva accesso alla biblioteca di notte.
“Chi si occupa delle pulizie, o il vostro guardiano notturno!”
Era l'unica spiegazione logica; le pulizie non sarebbero cominciate prima di un'ora, Becca chiese se volesse venire a casa sua a cenare, ma Cosmo era troppo inquieto per lasciare il posto così ordinarono cibo cinese e si misero ad aspettare nella postazione di lei.
Mentre si destreggiavano con le bacchette scambiandosi bustine di salsa lei chiese: “Posso farti una domanda?”
“Quello che vuoi.”
“Perché hai risposto quella cosa? Perché hai scritto gli altri sono un fastidio? Cioè, lo capisco, non sono una bambina ma... cos'è che ti hanno fatto?”
“Devono per forza avermi fatto qualcosa?”
“Sì, l'essere umano non è una creatura solitaria, quando ci allontaniamo dalla società lo facciamo solo perché siamo rimasti delusi, o feriti.”
Cosmo strinse le labbra e abbassò lo sguardo sui suoi spaghetti, semitrasparenti e traslucidi nella vaschetta di alluminio.
Era orgoglioso per natura e non si era mai rimangiato una teoria o una constatazione in vita sua, ma con Rebecca era diverso, quella ragazza lo faceva vergognare della sua altezzosità.
“Hum... in realtà lo stesso... lo stesso che è successo a te ecco. Il lavoro. Non riesco a trovare lavoro, non un lavoro da astronomo per lo meno. I concorsi statali sono pochissimi, vorrei andare all'estero, ho sempre sognato di lavorare per la Nasa sai, fin da bambino... ma c'è sempre qualcosa che si mette in mezzo; qualcuno che si mette in mezzo, professori che non fanno il loro lavoro, raccomandati e gente così. Alla fine ho accettato una cattedra e ora insegno.”
“Quindi hai dovuto rinunciare al tuo sogno... mi dispiace tanto.”
“Bhe per te sarà lo stesso immagino; cioè lo vedo che sei brava come bibliotecaria, ma tu sei una fisica, vorrai lavorare per quello per cui hai studiato.”
Rebecca finì i suoi gnocchi di riso, incrociò le dita alle ginocchia e poi disse: “No; in effetti no. Sai, la fisica teorica è affascinante, ma è un mondo fatto di calcoli e ragionamenti non certo di scoperte e io sono una donna avventurosa a cui piacciono le storie. Lavorando qui, lontano dai laboratori ho potuto accorgermi che ci sono cose, nel mondo, che solo se osservate da un fisico possono avere un senso.”
Cosmo la stava ascoltando affascinato e non si accorse che la signora delle pulizie era arrivata e aveva preso a strofinare i tavoli e a passare il suo spazzolone per terra.
“Ho scoperto, col tempo, che di noi scienziati c'è bisogno anche al di fuori del mondo accademico e dalle grandi agenzie governative o dai laboratori. Gente come me e te possono essere esploratori, scopritori!”
“Io vorrei scoprire le stelle, Becca.”
“E io risolvere il fenomeno del groviglio quantistico. Eppure sono qui e ti dico che non vorrei essere da nessun'altra parte la mondo.”
“Touchè.” mormorò lui piano.
Non stava capendo bene cosa lei gli stesse dicendo; lui non vedeva come una fisica e un astronomo potessero fare grandi scoperte rivoluzionarie nella vita di tutti i giorni in una biblioteca civica; i tempi della mela di Newton erano passati da un pezzo ormai, ma le credeva, anche senza capire le portava fiducia e voleva capire.
La signora delle pulizie finì il suo giro, svuotò i cestini e se ne andò senza aver degnato la scacchiera nemmeno di uno sguardo.
“Tu sei astronomo, cosa ne pensi della teoria sulle altre forme di vita nell'universo?”
“Penso che sarebbe bellissimo, che voglio crederci con tutto me stesso, che ogni probabilità è dalla parte di questa teoria e che non esiste una sola prova che possa dire che non è vero che siamo soli.”
“E se ti dicessi che stiamo guardando nel posto sbagliato?”
“Cosa?”
“Tu sei rimasto tanto deluso dal prossimo Cosmo; ti sei mai accorto di non essere il solo?”
“Sì certo, l'uomo contro dio, l'uomo contro la natura, l'uomo contro l'uomo. È uno dei temi principali della letteratura classica, ne hanno scritto in tanti proprio perché succede così spesso.”
“Esatto; e se gli ALTRI non fossero composti da persone? Da persone umane. Se gli Altri, quelli che non vediamo, quelli che percepiamo soltanto e che sono fra di noi senza mai essere visti, senza che possano essere visti, che si mettono in mezzo alle nostre aspirazioni e agiscono in maniera totalmente solitaria perché, al contrario di noi, non sono una razza societaria, non fossero umani?”
Raphael, il guardiano notturno, entrò nella grande stanza di lettura, fece il giro con la torcia fra gli scaffali e sorrise quando intravide la bibliotecaria carina attardarsi con un ragazzo della sua età nel cubicolo che ospitava il suo ufficetto dietro il bancone, poi si avvicinò alla scacchiera.
“Se venissero da lontano, non da un altro mondo, da un altro piano materiale. Un piano dove le leggi della fisica sono diverse. Un essere di stato quantico, che non può essere osservato e divenire deterministico.”
“Quindi che esiste solo quando noi non lo osserviamo? Come quegli insetti che si fondono con l'ambiente quando si sentono osservati ed è come se smettessero di esistere?”
“Fasmidi. Esatto; come i fasmidi. Se la fisica di questo mondo non gli permettesse di mostrarsi, di vivere umanamente, cosa credi che farebbero?”
“Io... io non lo so, dipende dalle loro esigenze immagino.”
“Metti caso che avessero esigenze simili alle nostre, che vivendo in luoghi solitari e silenziosi per seguire la propria natura ogni tanto avessero bisogno di un contatto umano, di provare sentimenti di amicizia, di confidare i propri pensieri a modo loro, cosa pensi che farebbero?”
Raphael diede un'occhiata veloce alla scacchiera, senza avvicinarsi troppo, solo uno sguardo per capire dove fosse arrivata la partita; lui giocava a scacchi da giovane, a casa sua a Santo Domingo, e si considerava discretamente bravo, ma non era certo al livello di quella partita. Scrollando il testone bruno si allontanò, ammirato, prese la porta e andò ad esplorare l'altra ala dell'edificio.
“Allora penso che di tanto in tanto si farebbero vivi.”
“E se tu fossi una creatura intelligente, schiva, solitaria e che può stare accanto al prossimo solo se non sta venendo notata ma che, per natura, agisce sulla vita delle persone in silenzio, inesorabilmente, agendo in segreto perché tutto quello che debba capitare capiti e quello che non è nel tuo destino resti nel grembo degli dei?”
Cosimo si guardò intorno, stordito e solo dopo un lungo momento rispose: “In una biblioteca. Io andrei a vivere in una biblioteca.”
Rebecca gli sorrise teneramente, lo guardò a lungo e Cosmo capì che non doveva rimpiangere la NASA come lei non doveva rimpiangere il CERN perché se non fossero stati li entrambi, se fossero stati lui a rimirar le stelle e lei persa nei suoi calcoli i loro mondi, i loro bei mondi profondi e teneri, non si sarebbero mai incontrati e nessuno dei due avrebbe mai scoperto l'amore.
La ragazza dalla bella voce di cui Cosmo si era innamorato girò la testa per guardare oltre il vetro di plexiglas dove, nel buio, la scacchiera rimaneva immobile, silenziosa e solitaria.
“Ha mosso.” disse, senza smettere di sorridere.
Cosmo spalancò gli occhi e la guardò trasalendo; si alzò, precipitandosi alla scacchiera. L'aveva tenuta d'occhio per tutto il tempo, niente e nessuno si era avvicinato, ne era certo!
Eppure quando arrivò al tavolino di fornica il suo re non c'era più.
Al suo posto non la regina bianca, come aveva pensato, ma la torre.
La maledetta torre nera si ergeva al posto del suo re.
“Scacco matto” mormorò, incredulo.
Al centro della scacchiera un foglietto che lui prese con dita tremanti mentre Rebecca gli si avvicinava con una torcia portatile per permettegli di leggerlo.
Le loro dita si intrecciarono mentre leggevano: “Bella partita, ragazzo delle stelle. Quando giochiamo ancora?”


